La storia non si dimentica: 35 anni dal tragico rogo del Ballarin

Rogo del Ballarin

SAN BENEDETTO DEL TRONTO – Sette giugno 1981. Allo stadio Fratelli Ballarin si sta per disputare l’ultima giornata del campionato serie C1 tra Sambenedettese e Matera. Per la festa di promozione è tutto pronto: ai rossoblù guidati da mister Sonetti, infatti, basta un pareggio per tornare in B.

Sugli spalti circa 12 mila euforici spettatori ignari di ciò che sarebbe accaduto. Poco prima del fischio d’inizio quasi sette quintali di striscioline di carta di giornale prendono fuoco proprio in Curva Sud. Le chiavi dei cancelli d’emergenza non vengono subito trovate. Il panico si prende gioco delle 3500 persone che, per diversi minuti, restano intrappolate. Molte tra queste cadono sul rogo e vengono assalite dalle fiamme. Quelle maledette fiamme spente dopo 16 minuti a causa del mancato funzionamento dell’idrante.

La scena è a dir poco agghiacciante: mentre arbitro e giocatori si avvicinano alla curva incendiata, due donne diventano vere e proprie torce umane, alcuni tentano di buttarsi oltre il fino spinato pur di salvarsi e un bambino di dieci anni viene salvato in extremis da un adulto. Una volta spento l’incendio numerosi feriti vengono trasportati e ricoverati presso l’Ospedale Civile di San Benedetto del Tronto. Tredici, i più gravi, vengono invece trasferiti in elicottero nei “Centri Grandi Ustioni” di tutta Italia.

Maria Teresa Napoleoni e Carla Bisirri perdono la vita nei giorni successivi. Entrambe si spengono al Sant’Eugenio di Roma in seguito a ustioni del primo, secondo e terzo grado sul 70% della superficie corporea. Maria Teresa, 23 anni, lavorava come segretaria in una ditta di calzature mentre Carla, 21 anni, aveva appena iniziato l’attività di parrucchiera.

Il Rogo del Ballarin, per le sue conseguenze (2 morti, 64 ustionati di cui 11 in gravi condizioni e un totale di quasi 100 feriti) si deve considerare a tutt’oggi la più grave e la più grande tragedia accaduta all’interno di uno stadio italiano.

Sono passati 35 anni e l’incubo è ancora vivo. Il ricordo è ovunque: negli occhi di chi ha visto, nelle parole di chi racconta, nel dolore di chi ha avuto paura ma soprattutto in quelle cicatrici mai più rimarginate.

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