Disparità di trattamento, ostracismo e pregiudizi: per molto tempo il calcio femminile è stato messo in un angolo. Ora cerca di uscirne.
La nascita di una scuola calcio femminile, a San Benedetto, ha trovato la risposta entusiastica della città e qualche domanda: perché si è aspettato fino adesso? Eppure, questa domanda si è posta solo a cose fatte. In un mondo (quello sportivo) sempre più integrato, le donne continuano ad essere in un ruolo minore, quasi subalterno.
Il calcio è certamente uno sport di dominio maschile. Nell’immaginario collettivo sono i bambini a frequentare una scuola calcio, non le bambine; uomini sono anche i giocatori, gli allenatori e i commentatori a cui pensiamo quando si parla del gioco. Le donne sono sullo sfondo, viste quasi come un’eccezione o – peggio – un accessorio per certi programmi sportivi. Perché?
Motivazioni psicologiche e sociali: da chi crede ancora sia uno sport “da maschi” a chi non fa nulla per incentivare la diffusione nel mondo femminile. In Italia le squadre femminili sono poche e poco supportate, ma qualcosa sta lentamente cambiando. Pur con tempi più lunghi rispetto alle principali realtà europee e mondiali, l’Italia sta riconoscendo al mondo femminile il suo spazio nello sport più amato al mondo. Il pallone inizia colorarsi di rosa.
Le iniziative
Molto sta facendo la UEFA per portare all’attenzione mediatica una parte troppo tempo dimenticata e disprezzata. Il calcio in Italia nasce come sport per uomini e negli anni la partecipazione femminile fu mal vista prevalentemente per ragioni culturali. Ma i numeri, almeno a livello europeo, confermano una crescita di interesse da parte degli spettatori e un aumento nel numero delle giocatrici.
Nonostante i buoni propositi delle istituzioni in Italia il calcio femminile rimane ancora piuttosto marginale, se non addirittura un oggetto di discriminazione. Basti pensare alla mancanza del riconoscimento di professionismo (una questione che riguarda non solo il calcio femminile, ma anche gli altri sport). Sulla carta le sportive italiane sono tutte dilettanti, indipendentemente dai livelli raggiunti. I campionati femminili di serie A e B sono organizzati dalla Lega Nazionale Dilettanti, e non hanno i riconoscimenti né le tutele del professionismi. Spesso gli stipendi ammontano ad un semplice rimborso spese, obbligando le atlete ad affiancare un lavoro retribuito, relegando il calcio ad una sorta di hobby.
Disparità di trattamento
A sottolineare con forza le condizioni impari – in termini di differenze economiche, di carriera e di promozione e investimenti da parte della federazione – è stata Carolina Morace, ex calciatrice, allenatrice di calcio e commentatrice sportiva italiana. In carriera vanta 12 scudetti, con 153 gare in Nazionale e oltre 500 gol segnati. Nel 2014 è stata inserita nella Hall of Fame del calcio italiano.
Sul sistema del calcio femminile, la Morace è sempre stata molto critica: “È facile dire che vogliamo che le ragazze si iscrivano, ma poi dobbiamo dargli opportunità future anche una volta conclusa la carriera sul campo. Io ho smesso di giocare a 35 anni, ed ero avvocato, iniziando quindi una professione nuova. Perché, allora, una dovrebbe scegliere di giocare a calcio fino a 35 anni se tanto dopo sa che andrà a fare un’altra cosa?” .
La possibilità di mantenere le risorse umane nel calcio è una condizione necessaria, per la crescita dello sport: “Non è un caso che nella finale delle Olimpiadi (Germania-Svezia) c’erano due allenatrici donne in panchina, Silvia Neid e Pia Sundhage, tutte due ex giocatrici di livello”. Ma la battaglia dei diritti femminili non si riduce solo al calcio. Lo sport femminile – a tutti i livelli – è considerato ancora dilettantistico: nessuna tutela o previdenza sociale, nessuna pensione, nessun trattamento di fine rapporto né garanzie in caso di maternità.
Flavia Pennetta, Federica Pellegrini, Tania Cagnotto e Valentina Vezzali, atlete che rappresentano il vertice italiano del loro sport, agli occhi del CONI sono atlete dilettanti. A sancirlo è una vecchia legge del 23 marzo 1981, n. 91 sul professionismo sportivo, la quale delega al CONI e alle federazioni la facoltà di decidere quali discipline riconoscere come professionistiche o dilettantistiche. Alle federazioni è stato demandato il riconoscimento del professionismo nello Sport, in piena autonomia. A oggi sono sport professioni basket, calcio, boxe, golf, automobilismo e motociclismo: ma vale solo per gli uomini.
Pregiudizi sociali
Oltre alle disparità di trattamento, il calcio femminile continua ad essere visto come uno sport minore. Un esempio concreto arriva dalla vicenda legata a Patrizia Panico, ex calciatrice italiana e prima donna italiana alla guida di una nazionale maschile, l’under 16. In carriera la Panico ha vinto 23 titoli di club (10 scudetti, 5 coppe Italia e 8 Supercoppe), vincendo il titolo di capocannoniere 14 volte. Detiene, inoltre, sia il record di presenze (204) che reti (110) in Nazionale, con la quale ha vinto l’argento agli europei del 1997 e preso parte alla fase finale del campionato mondiale 1999.
Il suo arrivo in Under 16 (dopo un anno nello staff del suo predecessore, Zoratto) è stato accolto con molta freddezza, se non perplessità. Alle voci che plaudevano la svolta si sono sommate diverse critiche, tra chi ne delegittimava i meriti e chi l’esperienza nel calcio femminile. Come al solito – e con la consueta eleganza – si è distinto Ivan Zazzaroni: “Donne allenatrici del calcio maschile? Sono inadatte”, aggiungendo che “Il calcio femminile non ha niente a che fare con quello maschile”.
Al giornalista e giudice di Ballando con le Stelle ha risposto Monica Maggioni, presidente dell’Associazione Nazionale Atlete Assist: “Frasi fuori dal tempo che danneggiano fortemente non solo tutto il movimento calcistico femminile, ma soprattutto ledono la dignità delle donne. Non capiamo per quale ragione una donna non possa fare un mestiere come un altro, solo perché donna”. Dalla Rai, nessuna risposta.
Il problema culturale (che vede il calcio femminile come inferiore) si trasforma rapidamente in un problema sociale, che vede le calciatrici fortemente svantaggiate rispetto agli omologhi uomini. L’equilibratore sociale dovrebbe essere la Figc, attualmente guidata da un presidente che parlo di donne ritenute “calcisticamente handicappate” per vantarsi dei miseri aumenti di fondi dedicati al calcio femminile.
In un mondo dove i brasiliani invocano Marta in nazionale, e dove gli Usa esultano più per le proprie donne che per la squadra maschile, l’Italia deve trovare il coraggio di ampliare la propria visione: una strada già intrapresa dalle maggiori nazionali europee, che – non a caso – stanno crescendo anche a livello maschile. L’uguaglianza di trattamento è una questione importantissima: a livello morale e anche sportivo. La rinascita del calcio italiano passa per il diventare (davvero) lo sport di tutti.