Noi (non) supereremo mai questa fase?

L’ennesima crisi della Sambenedettese Calcio ci sbatte in pieno viso problemi che si accumulano da anni. Dentro e fuori l’ambiente rossoblu


“I tifosi devono fare i tifosi, il presidente deve fare il presidente”: questo mantra accompagna la vita del tifoso rossoblu da più di 30 anni. Si tratta di un impianto culturale che resiste a fallimenti, indebitamenti, via-vai di banditi ed estati torride alla ricerca del salvatore che rinvii l’agonia all’anno seguente. Eppure, nemmeno di fronte all’ennesima sciagura societaria in atto, l’ambiente sambenedettese è stato in grado di compattarsi attorno ad una consapevolezza: il sistema in cui siamo immersi ha fallito, proviamo a cambiarlo.

Succede solo da noi?

Sarebbe un errore credere all’esistenza della nuvola di Fantozzi sopra le teste dei sambenedettesi: dalla Serie C in giù, il fallimento dei club sta diventando una tragica normalità. Se le due serie maggiori riescono a barcamenarsi tra debiti e prestiti, grazie anche all’aiuto dei fondi provenienti dai diritti tv, la Serie C è diventata il campo minato che miete più vittime. Le spese sono quelle (pesanti) del professionismo, gli incassi sono lontanissimi dalla A e dalla B: il risultato non può che portare ad un costante passivo dei conti a fine anno. Non è un caso che ogni tentativo di riforma del calcio italiano passi dalla proposta di rendere semi-professionistica la Serie C; in mancanza di idee e progetti per rendere autosostenibili i club, si cerca di scavalcare i problemi togliendo lo status professionistico alla terza divisione. L’idea è banalmente quella che si invoca anche in politica: “meno tasse, meno debiti”.

In un articolo ricchissimo di spunti interessanti quella della Samb è definita “una storia molto italiana”. Assolutamente vero, non solo per il numero impressionante di fallimenti (o crisi societarie, per utilizzare una categoria più larga) ma anche e soprattutto per il ciclico ripetersi di problemi che mettono in ginocchio il club rossoblu. Elementi di crisi, che ogni anno si riconoscono facilmente in tante società dalla Serie C in giù, riescono a trovare terreno fertilissimo nella Riviera delle Palme.

Perché accade così spesso a San Benedetto?

Come già detto, non è solo la Samb a fallire… tuttavia, è impressionante il numero di crisi che ha attraversato il club rossoblu negli ultimi 25 anni. Quando si cerca di studiare la storia recente del club, la sensazione che si avverte è quella di una lunghissima catena mai spezzata, che in poche annate si allenta per poi tornare a stringere in una morsa mortale la squadra di calcio.

Gli elementi di fragilità sono tantissimi e, messi insieme, rendono San Benedetto la piazza ideale dove poter promettere senza mai realizzare. In primis esiste il fattore strutturale: lo stadio è di proprietà del Comune, costretto a fare i conti annualmente con un rappresentante diverso della società: la grande fiducia dell’ambiente nei confronti di Domenico Serafino è dovuta soprattutto alla sua capacità di puntare sul rifacimento del manto erboso del “Riviera”, utilizzato come manifesto di grandezza delle ambizioni societarie.

C’è il fattore progettuale: la sequenza di fallimenti ha portato alla disperata ricerca di una proprietà in grado di garantire continuità negli anni, rendendo appetibile qualsiasi promessa fatta dal presidente di turno. In principio fu “Vi porto al Del Duca”, poi abbandonato per scaramanzia e sostituito da un altrettanto populista “Voglio far tornare la Samb dove merita”. Alla base c’è sempre l’idea di far leva sul passato glorioso da riconquistare con un progetto tanto rapido quanto travolgente.

Un altro elemento di fragilità è dato dal settore giovanile. Se si esclude la parentesi triennale di gestione dell’Associazione NoiSamb, il vivaio rossoblu ha sempre dovuto cambiare direzione di anno in anno, vedendo stravolto il lavoro quotidiano a causa dei problemi societari. Da serbatoio indispensabile alla vita della prima squadra (e dei bilanci), il settore giovanile è diventato periferia indesiderata da scaricare al più presto.

Ultimo, ma non per importanza, è il fattore culturale-comunicativo. Più che maestra di vita, la storia recente è stata vista come uno spauracchio da evitare: in quest’ottica ogni presidente è stato accolto come salvatore del gioco del pallone in città, colui che avrebbe evitato un ritorno dell’incubo del fallimento. Tale visione porta allo scontro quotidiano della fazione “pro-presidente”, che accetta a prescindere qualsiasi decisione della società ed etichetta ogni critica come un tentativo di destabilizzare, con la fazione “anti-presidente”. Entrambi gli schieramenti si basano sulla fluidità con cui si può passare da un lato all’altro della barricata, senza che venga meno l’ostinatezza nel non voler scalfire la superficialità del dibattito.

Tuttavia, se il tifoso può fare appello all’irrazionalità di chi vive sulla pelle l’amore incondizionato verso la Samb, ci si aspetterebbe un approccio più analitico da parte dei giornali…Niente da fare, anche in questo caso l’analisi quotidiana è affidata alla “pancia” e al tema caldo del momento. L’attuale crisi innescata dalla gestione di Domenico Serafino fa ancora più male perché negata da una parte dell’informazione, addirittura smentita con forza fino a quando la situazione non è esplosa.

Quali soluzioni?

L’ennesima emergenza ha portato alla nascita di un gruppo di lavoro, organizzato dall’amministrazione comunale con la presenza di una rappresentanza dei tifosi oltre al consiglio comunale e a tecnici in grado di analizzare la situazione da un punto di vista contabile e legale. Si tratta di un primo, piccolissimo passo volto a cercare soluzioni per l’immediato a un problema che affonda le radici da anni a San Benedetto. La gravità del momento porta a semplificare, banalizzare ogni ragionamento per ottenere risposte semplici che non esistono.

Sarà inutile mettere una toppa momentanea senza prendere coscienza di un cambiamento necessario nel modo di gestire la società di calcio. Qualunque sia lo sviluppo delle prossime settimane, occorre cambiare radicalmente il punto di vista sul ruolo del tifoso, che oggi si continua a considerare un cliente/bancomat senza alcun diritto se non quello di lamentarsi sui social. Senza un’attività di monitoraggio interna al club, la tifoseria è condannata in partenza a subire passivamente il ciclo di indebitamento e fallimento della società.

La presenza dei tifosi nel club può bastare a evitare nuovi fallimenti? No, ma deve rappresentare l’inizio di una nuova strada da percorrere. Una strada non facile, ma necessaria per spezzare la catena degli ultimi 25 anni.

17 Comments

17 Comments

  1. Paco 11 says:

    Questo è forse il migliore articolo che ho letto sulla Sambenedettese,
    Bisogna capire queste righe per iniziare a maturare un cambiamento radicale che prima deve essere culturale altrimenti ogni 3-4 anni saremo al punto di partenza.
    E’ interessantissimo l’ottimo l’articolo “Una storia molto italiana” che spiega alla perfezione il problema.
    Complimenti ragazzi, questo si chiama giornalismo!

      1. Paco 11 says:

        In mezzo a tanta immondizia locale che si autodefinisce “giornalismo” è doveroso riconoscere la professionalità di chi cerca di scrivere seriamente.
        Comunque ritornando al problema pensavo che il sig. Serafino effettivamente ha studiato bene la parte, avevo detto precedentemente che forse la carriera di attore sarebbe per lui stata più fortunata rispetto a quella di cantante.
        Purtroppo o per fortuna (a secondo da che parte si sta) i nodi vengono prima o poi al pettine.
        Ricordo che all’inizio un po’ tutti avevamo più di un dubbio sulle possibilità di questo personaggio apparso subito poco probabile; cos’è successo poi?
        E’ accaduto che l’ex cantante ha iniziato in modo impeccabile la sua avventura:
        1. Ha permesso alla squadra di disputare i play off quando poteva benissimo evitarli.
        2. Ha dimostrato di conoscere la storia della Sambenedettese e anche quindi in parte quella della città per dare l’impressione di essere un presidente legato in qualche modo a questa realtà.
        3. Nel giro di pochissimo tempo ha risolto il problema di reperire campi di allenamento investendo parte degli sforzi societari sul “Samba Village”, una struttura che doveva entrare a far parte di un progetto molto ambizioso e di lunga durata.
        4. Ha costruito una squadra comunque competitiva, era chiaro (ma non a tutti) che non sarebbe stata in grado di vincere il campionato e neanche di arrivare tra le prime ma gli arrivi di Maxi, Botta, Nocciolini hanno illuso più di un tifoso.
        5. Dopo anni di improvvisazione, sono stati fatti contratti pluriennali a quasi tutti i componenti della rosa.
        5. In meno di un mese ha ridato un manto erboso al “Riviera delle Palme” dopo 35 anni.
        A quel punto molti di noi (compreso il sottoscritto) hanno pensato che al fronte di tutti gli investimenti fatti ci fosse la mano di qualche “entità dietro le quinte” magari lo stesso coreano, personaggio che definire enigmatico sarebbe un eufemismo.
        I dubbi sono venuti fuori dopo l’allontanamento di Fusco e soprattutto di Colantuono seguiti dalle dimissioni di Zironelli, a quel punto sono venute a galla alcune domande (dimostratesi correlate con la crisi finanziaria) che Serafino ha cercato di eludere fino a quando non è esplosa la bomba di Maxi attraverso un messaggio sui social che confermava il mancato pagamento degli stipendi.
        Il resto è storia più recente ma alla luce dei fatti ricostruiti, anche questa volta, seppur con un copione diverso, il finale sembra lo stesso di un deja vù già vissuto.

  2. lucioc says:

    Con quale diritto i “tifosi” possono esercitare un controllo su una societa’ a proprieta’ privata come una societa’ di calcio? In questo contesto i “tifosi” non sono un soggetto giuridico, e’ solo pubblico pagante. Per quanto possiamo essere investiti emozionalmente, la realta’ pero’ e’ questa.

    Una societa’ di calcio e’ un’attivita’ commerciale come altre, che richiede un preciso e fattibile business model. Richiede impegno e capacita’ nell’investire, sviluppare e gestire la societa’ su basi sostenibili: vivaio, monte ingaggi della playing squad, incassi al botteghino, contributi dalla federazione, attivita’ commerciali collaterali di supporto, eventuali introiti da diritti televisivi e cosi via.

    E’ un’attivita’ commerciale ‘privata’, va sottolineato privata, la quale ha risonanza pubblica ma nel quale il pubblico non entra nella gestione e nel diretto finanziamento se non pagando il biglietto al botteghino. Il comune di solito (in pratica sempre, l’unica eccezione in Italia e’ la Juve) e’ proprietario dello stadio e puo’ contribuire entro limiti dettati dal bilancio (ossia pagate con le nostre tasse) a facilitare l’attivita’ con convenzioni d’uso ad hoc degli impianti, senza peraltro avere alcun obbligo di sovvenzionare l’attivita’ di una societa’ sportiva a proprieta’ privata, per quanto rilevante possa essere al pubblico o cittadinanza. E ci mancherebbe.

    Su questa base, e’ difficile capire quale possa essere il ruolo dei tifosi nella gestione di una tale attivita’ privata se non ha quote di proprieta’ e, nel caso possa averne, quanto possa influire, a chi risponde e con quali modalita’ e responsabilita’ giuridiche.

    Poi c’e’ certamente l’argomento chiave sulla sostenibilita’ del calcio nelle serie minori, in particolare la Serie C. Esiste una sezione del calcio di provincia, base del “grande” calcio in Italia, che ha visto piazze storiche – non solo noi: Taranto, Ancona, Pisa, Livorno, Messina, Campobasso e molte altre – dove il calcio in pratica e’ stato azzerato. Ma non ha impedito al calcio di vertice di continuare a prosperare, anzi si e’ rafforzato. Nuove realta’ locali si sono proposte (Benevento, Frosinone, Sassuolo, Crotone, Spezia, ad esempio), in parte soppiantando quelle che citavo sopra. Bisognerebbe anche studiare quelle citta’ di provincia che riescono a sostenere l’attivita’ calcistica, non solo quelle in Serie A o B, ma anche realta’ ad esempio come il dignitoso Matelica di quest’anno o Il Renate e molte altre, e quanto siano sostenibili.

  3. Tifoso dal 1972 says:

    Articolo perfetto!
    Amici tifosi, ci siamo illusi/siamo stati illusi ancora una volta dal solito personaggio poco probabile come lo ha definito il tifoso che mi ha preceduto, anche lui molto bravo nella sua analisi, complimenti!
    Dal 1988 in poi ho ricevuto tante piccole gioie effimere e tante grandi amarezze; sono dunque giunto ad una conclusione: la nostra amata Samb deve tornare in mano ai sambenedettesi, ad una società di sambenedettesi, che sappia progettare senza fretta un futuro che garantisca una tranquilla categoria (C o D non importa al momento), puntando sui giovani, con investimenti moderati, recuperando le relazioni con le società del territorio alla ricerca di giovani talenti, collaborando con società di categoria superiore per far “fare le ossa” ai loro calciatori del vivaio e restituirli valorizzati; insomma dobbiamo ritornare a quello che sapevamo fare negli anni 70 e 80, aspettando la “nidiata” giusta per fare il salto di qualità.
    Vorrei ricordare a tutti l’esempio dell’Empoli, un tempo avversaria abitudinaria della Samb nel classico girone B della serie C degli anni 70, una piccola società di una piccola città che ancora oggi stupisce per le sua solidità, per i traguardi raggiunti, una società che non ha mai fatto drammi delle retrocessioni, seguite puntualmente dalle promozioni in B e in A.
    Meditiamo gente, meditiamo…

    1. Paco 11 says:

      Il problema è che abbiamo provato pure con quelli: i personaggi locali ci hanno fatto sprofondare nell’eccellenza due volte nel giro di 4 anni: nel 2009 i Tormenti (di nome e di fatto) e nel 2013 la coppia Pignotti e Bartolomei.
      Tempo fa leggevo un commento piuttosto paradossale ma non più di tanto e che diceva: “la Sambenedettese dovrebbe ripartire dalla 1 categoria ed esserle impedito la promozione per almeno i prossimi 10 anni”
      Siamo sempre risaliti dall’inferno dei dilettanti in poco tempo e forse per questo molti si sono dimenticati le umiliazioni nei campetti di periferia di una squadra che ha comunque una storia importante e che è stata la prima nelle Marche a giocare il calcio che conta.

  4. Tifoso dal 1972 says:

    Gentile Paco,
    intendevo un gruppo di persone che affiancano una persona di rilievo economico della città o dintorni,
    una vera società non singoli avventurieri locali con pochi soldi e pochi scrupoli.
    Se questo non dovesse accadere, allora possiamo dichiarare chiuso il capitolo calcio a San Benedetto con buona pace per i nostri tifosi.

  5. Paco 11 says:

    In teoria sarebbe la soluzione migliore ma a SBT purtroppo c’è un certo tipo di mentalità poco propensa a ciò che dici.
    E’ comunque una strada che si deve battere fino in fondo.
    A quel punto però bisognerebbe essere onesti e dire che l’obiettivo è quello di rimanere in serie C fino a quando non maturerebbero le condizioni giuste per poter tentare il salto di categoria, ossia quando il futuro settore giovanile funzionerà a pieno ritmo.
    Ricostruire piano le fondamenta per un calcio pulito e sostenibile.
    Il problema di fondo però (come è stato detto) è strutturale e riguarda tutto il movimento calcistico dalla terza serie in giù e in particolar modo proprio la serie C.
    La soluzione sarebbe semplice ed antitetica a tutte le scelte scellerate che la Lega ha fatto in questi ultimi anni.
    Per evitare la maggior parte dei fallimenti si potrebbe scegliere tra queste due soluzioni (ti parlo della serie C):
    1. Un campionato di serie C con l’etichetta di “professionismo” diviso in due gironi (Nord-Sud) di 18 squadre per girone e play off tra le prime 5. A tale campionato andrebbero dati moltissimi più soldi da parte della Lega.
    2. Togliere alla serie C lo status di “professionismo” in modo che ci siano più sgravi fiscali che compenserebbero i soldi mancanti dai diritti televisivi che ci sono per la “B” e la “A”.
    Cosa è stato fatto invece?
    Il contrario e la Samb è l’esempio guida di una crisi di sistema gestita da incapaci.
    Il presidente di Lega , circa un mese fa disse che la Sambenedettese rappresentava un modello per l’intero movimento.
    Si ride per non piangere..

  6. Tifoso dal 1972 Samb - Aquila Montevarchi 0 1 sofferenza dal primo giorno says:

    Gentile Paco,
    totalmente d’accordo con le tue considerazioni!

    Auguri di Buona Pasqua a te, a tutti i tifosi e
    un grande in bocca al lupo al futuro (speriamo ci sia) della nostra beneamata

  7. Michele Palmiero says:

    Purtroppo avete ragione entrambi: l’attuale struttura del calcio di provincia (Proprietario filantropo – tifoso/cliente) non regge più. Allo stesso tempo non può bastare nemmeno dire “la samb ai sambenedettesi” se prima non concretizziamo un reale cambiamento culturale.
    Il “modello” Pignotti e Bartolomei non cambia in nulla se non nella provenienza geografica dei proprietari: occorre ribaltare la piramide e proporre “dal basso” una proprietà diffusa nella quale convivono grandi-medi-piccoli imprenditori ma anche i tifosi.
    Difficile? Di più, ma è un tentativo non più rinviabile.

  8. Tifoso dal 1972 Samb - Aquila Montevarchi 0 1 samb divisa bianca, montevarchi rossoblù a strisce, che confusione a 8 anni says:

    Gentile Michele,
    condivido quasi tutta la tua tesi di fondo,
    non sono d’accordo sulla partecipazione societaria dei tifosi che considero da sempre troppo “umorali” per rivestire un ruolo così importante di un club. Sono sempre stati ammirabili, indispensabili, l’altra anima della squadra, ma in passato le loro contestazioni, eccessive in qualche caso, non hanno favorito l’avvicinamento alla squadra di imprenditori di San Benedetto.
    Lasciamo l’onere ai professionisti economici, lavoriamo per invogliare diversi Imprenditori-tifosi ad avventurarsi con passione in questo meraviglioso sport, successivamente ed in altro modo daremo una mano anche noi.
    Non vorrei ripetermi, ma in Italia abbiamo esempi di eccellenti gestioni, piccole realtà calcistiche simili a noi, Empoli in primis, Cittadellla, Frosinone, Benevento, Crotone

    Buona Pasqua anche a te

  9. lucioc says:

    Volevo solo salutare e dire al nostro amico “Tifoso dal 1972” che quel Samb – Aquila Montevarchi fu anche la mia prima partita al Ballarin, avevo 9 anni e se non sbaglio stavamo sulla gradinata nord (la sud non c’era ancora, fu costruita dopo la seconda promozione in B).

    Mi considero tifoso Samb dalla nascita, sebbene non sia nato a Sbt mi riportarono che avevo due mesi e ho le foto con me neonato in braccio a mia zia in via Piemonte (dietro al liceo classico) e la strada ancora non asfaltata ma brecciata…

    Sempre Forza

  10. Tifoso dal 1972 says:

    Gentile Lucioc,
    stiamo approfittando dello spazio riservato ai commenti e non ai ricordi(belli) dei tifosi, di lunga data, per cui confido nella comprensione degli amici di Noi Samb;
    esterniamo comunque sentimenti rossoblù.
    Devo dirti che il mio povero padre che ha fatto sempre l’abbonamento da (S)Venturato in poi
    in quel tempo amava posizionarsi ai distinti mare, esattamente nei pressi della linea di centrocampo, in alto, per vedere meglio la partita; e da lì ho assistito nell’infanzia agli incontri della mia amata Samb.
    Ovviamente, da bimbo, non sempre vedevo bene tutto il campo da gioco, ma ricordo in modo nitido la gradinata sud con tubolari e tavolacci a sinistra del vecchio ingresso in muratura, cancello verde. La gradinata sud penso fosse costituita dagli stessi materiali. Ricordo benissimo i giocatori fare il loro ingresso in campo, uscendo da sotto la tribuna coperta nei pressi del cancello verde grande da cui entravano i mezzi di soccorso.
    Permettetemi un ultimo ricordo indelebile; dietro quel cancello verde grande, fuori lo stadio, aldilà della strada c’era un pino molto alto dalla cui sommità ogni domenica uno sconosciuto signore vedeva la partita per non pagare il biglietto.
    Buona Pasqua anche a te amico di ricordi

  11. Paco 11 says:

    La mia idea sarebbe quella di coinvolgere 2 max. 3 personaggi locali (seri e fidati) che abbiano la passione e i mezzi per portare avanti il calcio a SBT ma lascerei una piccola quota, magari il 10% a una associazione di tifosi (noisamb?), questo a prescindere.
    Un bel bagno di umiltà con l’obiettivo massimo di tenere la C per i prossimi anni man mano che venga costruito un settore giovanile forte che in futuro possa costituire quel passo necessario per pensare di ritornare tra i professionisti.
    Questo sarebbe il mio “sogno”.

  12. lucioc says:

    La gestione di una societa’ di calcio e’ un’attivita’ imprenditoriale, con adeguato business model. Richiede impegno e capacita’ nell’investire, sviluppare e gestire la societa’ su basi sostenibili: ci vogliono investimenti iniziali per avviare e sostenere il vivaio; monte ingaggi, incassi al botteghino, contributi dalla federazione, attivita’ commerciali collaterali di supporto, eventuali introiti da diritti televisivi e cosi via. Man mano rafforzare il business e quindi poter pianificare una crescita sostenibile.

    In questo senso imprenditoriale, gente che ha visto due lire per sbaglio come Serafino – invece di tipi come Fedeli che i soldi li ha saputi fare (per quanto vanesio, anziano e sempre di sfuggita in citta’) – e’ la categoria piu’ a rischio in quanto a priori un’incognita nella gestione e sviluppo del business; infatti in pochi mesi abbiamo constatato il suo bluff.

    In Inghilterra, dove mi trovo, alcune societa’ (tipo l’Arsenal) hanno una componente minoritaria di azioni in mano a gruppi di tifosi, i quali mi risulta stanno sempre in (vana) lotta con l’azionista di maggioranza (Kroenke, americano) reo di non investire nella squadra come i proprietari arabi o russi di altri clubs di Premier League. Ma ci sono anche realta’ come il Burnley FC, della citta’ piu’ piccola in PL, il quale e’ passato dalla quasi bancarotta nel 2002 alla promozione in PL nel 2009. Sono retrocessi e sono tornati su, sempre con lo stesso allenatore (Sean Dyche) e tengono sotto stretto controllo il monte ingaggi (spesa di gran lunga maggiore per un club professionistico). Bisogna sapere amministrare facendo il passo secondo la propria gamba.

  13. Paco 11 says:

    ..per questo ci vuole gente seria e competente che dica la verità alla piazza.
    Se in futuro avremo la possibilità di percorrere questa via, chi avrà l’onere e l’onore di essere il prossimo presidente, dovrà necessariamente dire che il massimo a cui possiamo aspirare è fare una buona serie C.
    Se poi le cose dovessero andare per il verso giusto dopo aver dimostrato tutti nei fatti un cambio di mentalità radicale (non si può sentire più certi giornalai dire ancora “..noi siamo la Samb”), quando i tempi saranno maturi e avremo un settore giovanile degno, potremo pensare a salire di categoria ma senza mai fare il “passo più lungo della gamba”.
    Per costruire i giovani ci vogliono soldi e competenza, quindi come dici te, è comunque un investimento.
    Ma possibile che con tutte le potenzialità economiche (specie nel settore turistico) che ha SBT, non si riesca a trovare qualche imprenditore locale (SERIO E FIDATO) a cui interessi la Sambenedettese?
    Ci sarà sempre una parte di tifosi pronti a criticare che gli investimenti saranno pochi ma noi che in questi ultimi trent’anni ci siamo fatti gli anticorpi, dovremo ricordare loro anche questi momenti.

  14. lucioc says:

    Siamo d’accordo, Paco.

    Qualcuno locale ci vorrebbe, in quanto coloro che vengono da fuori sono spesso speculatori ai quali della Samb non interessa nulla e sono attratti dalle evidenti potenzialita’ della citta’, la sua posizione geografica centrale e ben servita dalle autostrade (nord-sud e per Roma) e in particolare dallo stadio di categoria superiore (con diecimila paganti a partita, come in media era al Ballarin in serie B, i conti si fanno subito).

    La piazza, lo abbiamo gia’ detto , deve essere realista, deve capire che non ci sono miracoli e tanto meno benefattori, ma solo lavoro oculato e ben fatto i cui risultati si vedono sul lungo termine.

    Poi c’e’ anche l’argomento chiave sulla sostenibilita’ del calcio nelle serie minori, in paricolare la Serie C. Esiste una sezione del calcio di provincia, base del “grande” calcio in Italia, che ha visto piazze storiche – non solo noi: Taranto, Ancona, Pisa, Livorno, Messina, Campobasso, lo stesso Padova di recente e molte altre realta’ – dove il calcio in pratica e’ stato azzerato. Ma non ha impedito al calcio di vertice di continuare a prosperare, anzi si e’ rafforzato. Nuove realta’ locali si sono proposte (Benevento, Frosinone, Sassuolo, Crotone, Spezia, ad esempio), in parte soppiantando quelle che citavo sopra. Bisogna costruire una societa’ di calcio che si sostenga nel lungo termine.

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