Paolo Montero vuole prendersi la Samb

Paolo Montero

Un personaggio amato e controverso in una piazza stimolante e difficilissima. Comunque vada, quella tra Montero e la Samb sarà una storia senza mezze misure


Quando la Sambenedettese ha annunciato l’ingaggio di Paolo Montero molti hanno pensato fosse uno scherzo, o il primo miraggio di un’estate arrivata tardi e tutta di colpo. Eppure l’annuncio è rimasto, suffragato dalle foto di Montero nell’ufficio del presidente a Pomezia, con la sciarpa rossoblu in mano. Le prime foto hanno fatto rapidamente il giro dei quotidiani locali e nazionali, accompagnate da titoli che variavano la semantica da colpo, a clamore, a sorpresa.

Il gusto di Fedeli per i nomi a effetto non deve sorprendere. Durante il suo primo anno il presidente provò a ingaggiare Reginaldo, che passò sei mesi in riva al mare prima andarsene senza firmare il contratto; miglior esito ebbe la trattativa per Bačinovič, annunciato l’ultimo giorno di mercato dopo le smentite del figlio Andrea. Al momento l’acquisto fece un grande effetto, via via sbiadito col passare dei mesi e l’abitudine.

Nel 2017 fu la volta di Francesco Moriero, ex grande giocatore e allenatore non altrettanto brillante, come suggerito dall’impietosa conta degli esoneri che fecero al suo arrivo. Fedeli lo accolse con belle parole, che presto lasciarono il posto alle critiche; quando Moriero tornò, a fine campionato, non gli concesse neanche una conferenza stampa. Brutta fine anche per Troianiello, mister promozioni, accolto in pompa magna e allontanato nel silenzio generale.

Le delusioni maturate negli anni hanno procurato a Fedeli una sorda e amara diffidenza, tipica degli amanti traditi; eppure, anche lo scorso anno – in pieno clima controrivoluzionario – il presidente rossoblu non si è lasciato scappare Russotto e Calderini, stelle più luminose di un firmamento che da lì a poco si sarebbe scoperto pieno di nane brune.

Il personaggio Montero

L’arrivo di Montero supera tutti, per la statura del personaggio e per la sorpresa dell’annuncio: un grande coup de théâtre, che fatto dimenticare alla piazza le lunghe attese dei giorni scorsi, passati ad aspettare novità sulla (eventuale) cessione, la composizione della dirigenza e l’organizzazione del settore giovanile. Fedeli – che un po’ di attenzione non la disdegna mai, specie quando positiva – l’ha accolto evidenziandone il ritorno mediatico: «Dopo l’annuncio mi ha già chiamato mezza Italia, adesso bisogna vedere quello che dimostra da allenatore».

Montero ha lasciato la Juve e l’Italia 14 anni fa, ma è difficile pensarlo senza i panni del calciatore. Come farlo? Negli anni in bianconero il centrale uruguaiano ha occupato e diviso l’opinione pubblica, adattandosi all’immaginario del difensore duro e pazzo come pochi. Amato dai suoi tifosi, odiato da tutti gli altri, che vedevano inadeguatezza nella sua aggressività.

Montero in contrasto

Di Montero si evidenziavano spesso la forza mentale e l’agonismo; aspetti quasi intangibili, misurabili solo attraverso le sue parole (mai concilianti) e i suoi interventi (spesso al limite del regolamento). L’uruguaiano aveva una concezione del calcio quasi tribale, in cui il bene della squadra superava tutto: l’incolumità sua e degli avversari, la tranquillità personale e la sua reputazione di calciatore.

«Avevo un mio codice, non certo etico. Un codice d’onore, chiamiamolo così. Per la mia squadra, tutto. Stava agli arbitri fissare il confine di quel “tutto”. Ne ho sempre rispettato le decisioni, così come gli avversari che menavo rispettavano la mia violenza per il semplice fatto che era grossolana ma, a suo modo, leale. quante volte sentivo e sento allenatori ed esperti ripetere che nel calcio ci vogliono anche i Montero…»

Montero non viene ricordato per i quattro scudetti (cinque, per i suoi tifosi) o per le 6 coppe (3 supercoppe italiane, una supercoppa Uefa, una coppa intercontinentale e una Intertoto), ma per il record di cartellini rossi in campionato (sedici, cinque in più di Di Biagio, Ferrini e Bergomi). E non è un caso che il suo gesto più paradigmatico non sia un gol o un’esultanza, ma il bacio sullo stemma della Juventus dopo un’espulsione.

L’uruguaiano non è riconosciuto al livello dei più grandi, eppure al livello dei più grandi c’è sempre stato, e come tale è stato riconosciuto dai suoi compagni e dai suoi allenatori. Menotti lo paragonò a Passarella, predicendogli una grande carriera; Lippi lo trovò all’Atalanta e se lo portò alla Juventus, sfidando la diffidenza della proprietà; Ancelotti – che pure gli era molto distante, come indole e carattere – espresse più volte la sua ammirazione (“un galeotto mancato, ma con un codice d’onore”).

Lo stesso affetto arrivava dai suoi compagni di squadra, tutti, dai colleghi di reparto (Pessotto, Iuliano, Ferrara) a fenomeni come Zidane, Del Piero e Trezeguet. «La domenica sapevi che contavi su un grosso giocatore. Vedevo il terrore negli attaccanti avversari: se c’era Paolo nei paraggi si spostavano dall’altra parte». Non sorprende quindi la stima del presidente Agnelli, nonostante l’uruguaiano fosse quanto di più distante da quello stile di cui l’Avvocato era così affezionato interprete. Del resto, uno così era sempre meglio averlo in squadra.

Montero e Zidane

Dal canto suo, Montero ha sempre ribadito la sua onestà morale: «Io non ho mai commesso falli cattivi, le mie reazioni sono istintive. Del resto sono latino, come voi italiani. E per i latini il calcio è anche furbizia». Tutto nasceva da una folle dedizione alla causa, che spesso lo faceva cadere nei peggiori eccessi, come in occasione del calcio a Totti, o il pugno a Di Biagio. Momenti che hanno creato una sorta di epica, ma ne hanno anche minato l’eredità.

Fuori dal campo, vicino al campo

Allontanandosi dal campo Montero ha perso un po’ di fanatismo, ma non ha mai rinnegato il suo carattere, capace di grandi crudezze («Se Di Biagio si lamenta vada a giocare a pallavolo») e grandi sensibilità («Da Montevideo a Torino per visitare Pessotto? Per uno come lui è il minimo, proprio il minimo»).

Del resto, l’uruguaiano è sempre stato un personaggio senza misure: lo era già ad inizio carriera, quando appena maggiorenne disse a Lippi che non avrebbe mai giocato come terzino («O centrale o non gioco», e giocò centrale); lo è rimasto a trentacinque anni, quando ha lasciato il calcio con un taglio netto: «Nessuna nostalgia. Non ne sento la mancanza. Tutto quello che avevo da dare, l’ho dato».

Per alcuni anni Montero ha deciso di staccare completamente, rigettando la possibilità di intraprendere la carriera di allenatore. Anzi, all’inizio l’idea era quella di fare il procuratore, nel tentativo di dare ad altri ragazzi le sue stesse possibilità. Ma il richiamo del campo è forte, e nel 2013 ha iniziato ad allenare le giovanili del Peñarol, squadra in cui aveva iniziato e concluso la sua carriera da giocatore.

Nel novembre del 2014 ha assunto la guida della prima squadra ad interim, in attesa che la dirigenza trovasse l’allenatore giusto per risollevare la squadra dalle zone basse della classifica; è rimasto in tutto tre partite, vincendone due, e facendosi contagiare da una grande voglia di campo: in poco tempo è passato dal Boca Unido al Còlon, lasciato per allenare il Rosario Central, con cui non finisce benissimo. Un anno di studio, il corso a Coverciano e ora la panchina della Sambenedettese, una delle squadre forse più sudamericane di tutta la categoria.

Quali prospettive?

In questo momento è difficile dire come sarà l’allenatore Montero: le ultime esperienze sono lontane nel tempo e nello spazio, in un calcio completamente diverso, e per questo poco indicativo. Sul Montero uomo, però, ci sono pochi dubbi. Sarà interessante vederlo misurarsi con l’ambiente Samb – una piazza calorosa ma esigente, spesso crudele – e sarà divertente vedere che tipo di rapporto ci sarà con Fedeli, un presidente facile da far innamorare e difficilissimo da riconquistare.

Per entrambi si tratta di un salto nel buio, e non è ancora chiaro se prevarrà la statura dell’uno o la posizione di forza dell’altro, datore di lavoro e padre-padrone, che potrebbe spogliare i panni del tifoso bianconero per vestire quelli del mangia-allenatori rossoblu. Come sempre, dipenderà tutto dai risultati. Del resto, “Vincere è l’unica cosa che conta”.

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