Gli alibi sono finiti

I motivi, le circostanze e le conseguenze delle dimissioni di Ottavio Palladini


“Ripetete una bugia cento, mille, un milione di volte e diventerà una verità”

Ottavio Palladini non è mai stato il problema della Samb, ma spesso è stata l’unica soluzione. Nell’ultima decade (a parte l’exploit di Mosconi, Eccellenza del 2014) l’allenatore sambenedettese è stato l’unico capace di vincere – e resistere – sulla panchina rossoblu, portando risultati e tranquillità ad un ambiente spesso schizofrenico.

In questi 14 mesi l’allenatore ha preso una squadra sull’orlo di una crisi di nervi e le ha fatto vincere la Serie D con 4 giornate d’anticipo, poi – con una squadra rifatta da zero, tante incognite e poche certezze – ha portato i rossoblu fino al terzo posto in classifica.

Sin dall’inizio del campionato l’allenatore ha dovuto fare i conti con una dirigenza che si è messa (giustamente) al suo fianco nei momenti migliori, ma non l’ha mai tutelato in quelli difficili; una dirigenza incapace di difendere il proprio allenatore e la propria squadra, trovandosi spesso ad attaccarla; una dirigenza che ha parlato di settimo posto a maggio, di promozione a ottobre e di squadretta a dicembre.

In un cortocircuito inspiegabile, si è riusciti ad affermare (contemporaneamente) che la squadra è scarsa, e che l’allenatore che ha portato la squadra “scarsa” al primo posto è scarso a sua volta. “Se non dai seguito non vale niente”, ha detto Fedeli: giusto. Ma l’unica continuità che si era chiesta a Palladini era di una squadra tra le prime dieci, e lui ha rispettato queste premesse fino alla fine.

L’autolesionismo tafazziano tipico dei sambenedettesi è stato incapace di riconoscere il valore di Palladini, nonostante questi – solo negli ultimi mesi – avesse ricevuto i complimenti degli allenatori di ModenaPordenone e Maceratese.

Nonostante la vicinanza dei colleghi, Palladini è rimasto sempre più solo: dopo i pareggi con Albinoleffe e Modena la squadra è stata smontata pezzo pezzo – dal team manager, al direttore sportivo, ai giocatori. Tra accuse, rese dei conti e attacchi, il (fisiologico) plateau di crescita è diventato una crisi vera e propria.

Certa stampa e certi tifosi – incentivati dal silenzio della società – hanno attribuito all’allenatore i problemi di tutta la squadra, senza il beneficio del dubbio. Il presidente, che oggi si dice dispiaciuto, è lo stesso che ieri non ha risposto all’ultimatum di Di Campli; certa stampa, che ora lo piange, è la stessa che non si è mai presa l’onere di difenderlo, se questo significava contraddire la dirigenza e la maggioranza del tifo.

A prescindere da come finirà questo campionato, la certezza è che questa società non si è rivelata all’altezza (umana, prima che sportiva) del proprio allenatore.

Il presidente ha salvato la Sambenedettese e l’ha riportata tra i professionisti: gran parte dei meriti sono e restano suoi. Ora che tutti gli alibi (allenatore, dirigenti, giocatori) sono andati, o stanno per andarsene, Fedeli si assumerà anche le colpe.

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